Nel giardino di Casa Betania, che di recente è stato anche uno dei protagonisti di Interno Verde, si incrociano davvero tante storie, tutte con un denominatore comune: l’accoglienza.
Casa Betania oggi fa parte del progetto di accoglienza di Caritas per donne, bambini e nuclei richiedenti asilo e per profughi. E’ il centro più grande della provincia con 33 posti a disposizione.
Il progetto prevede vitto, alloggio e vari servizi come mediazione, assistenza legale, accompagnamenti a livello amministrativo e sanitario, ci sono incontri con psicologi e assistenti sociali. Si cerca in ogni modo di facilitare l’inserimento nella quotidianità delle persone accolte.
“Attualmente qui vivono ragazze provenienti dalla Somalia, dalla Costa d’Avorio, dal Camerun e dalla Guinea – racconta Maria Teresa Stampi, operatrice di Caritas – quando arrivano sono spesso incinta e spaventate, è fondamentale guadagnare la loro fiducia”.
La convivenza con le altre all’inizio è difficile, provengono da culture, lingue e abitudini diverse. Ma piano piano si impara a conoscersi.
La struttura è divisa in tre sezioni: al primo piano ci sono dei monolocali che possono ospitare dalle quattro alle sei persone ciascuno. C’è poi una seconda zona dove si trovano stanze singole con uno o al massimo due persone. Al secondo piano vivono mamme con bimbi piccoli o donne da sole, qui vengono sistemate le situazioni più fragili.
Al piano terra c’è l’aula per la scuola d’italiano, imparare la lingua è infatti il primo obiettivo per queste ragazze. Capire e farsi capire è indispensabile per costruirsi un futuro qui.
Il percorso che devono intraprendere per ottenere lo stato di richiedente asilo è lungo e complesso: “Inizia con la presa in carico in Questura che serve per ufficializzare la richiesta – spiega Maria Teresa – da quel momento entrano nel sistema e dovranno essere chiamati da una Commissione territoriale che ascolterà la loro storia e controllerà tutta la documentazione che potranno portare, per decidere se hanno diritto all’asilo politico o ad altre forme di protezione. L’asilo è molto difficile da ottenere, ma se la Commissione lo nega si può fare ricorso a un giudice specializzato nel paese di origine, il problema è che questa procedura può durare anni, noi qui ospitiamo una ragazza che aspetta dal 2016. Ci sono ragazze che hanno avuto bambini che ormai vanno alle elementari”.
In attesa del colloquio con la Commissione dopo la presa in carico in Questura viene rilasciato il permesso di soggiorno che deve essere rinnovato ogni 6 mesi, ma per rinnovarlo spesso ne occorrono altrettanti e così queste ragazze possono restare senza documenti, questo crea problemi a livello sanitario e anche lavorativo, perchè i datori di lavoro non possono fare/rinnovare un contratto se il permesso di soggiorno è scaduto.
“Per le nostre ospiti lavorare è importantissimo, cercano ovunque, dalla campagna alle pulizie, alcune riescono anche a studiare per diventare Operatrici Socio Sanitarie, cuoche e qualcuna arriva anche all’università” sottolinea Maria Teresa con una punta di orgoglio.
Per legge per poter continuare a restare all’interno del progetto di accoglienza non possono avere uno stipendio che superi l’ammontare dell’assegno sociale. Per acquistare il cibo e altri prodotti di igiene possono usufruire di buoni quindi la maggior parte di quello che guadagnano lo mandano alle famiglie, spesso ai figli che hanno dovuto lasciare a casa.
Oppure lo mettono da parte perché poi una volta usciti dal progetto dovranno cercarsi una casa in affitto. E non sarà facile, Maria Teresa racconta di una coppia con due contratti di lavoro, uno a tempo indeterminato, che non è riuscita a trovare un appartamento in affitto, “per loro è stato più facile ottenere, attraverso Banca Etica, un mutuo per potersela comprare una casa”.
Si esce dal progetto se si ottiene l’asilo politico ovviamente. Se viene negato una prima volta si può fare ricorso e se anche in quel caso non si ottiene nulla, nessuna altra forma di protezione, si è costretti ad uscire ma senza nulla in mano, si finisce in un “limbo nero” come lo definisce Maria Teresa. E allora Caritas si prende cura di queste persone, le accoglie, in altri modi, come la mensa.
Mentre aspettano il colloquio con la Commissione e quello che ne segue, le vite di queste persone provano ad andare avanti: alcuni bambini riescono ad entrare all’asilo, le mamme si confrontano con altre mamme, si creano contatti.
Gli operatori e i mediatori cercano di educarle alla nostra amministrazione, renderle autonome nella richiesta di documenti, nelle visite mediche, nei colloqui di lavoro. Certo la decisione della Commissione le tiene sospese, vivono nella paura di essere rimandate a casa.
Quello degli operatori come Maria Teresa “è un lavoro complicato, impegnativo, che ti porti a casa, ma non lo cambierei, le difficoltà ti insegnano a crescere e a metterti in discussione, a essere creativa, a inventarti soluzioni. E da queste persone impari sempre anche tu: ricordo una ragazza analfabeta che, dopo aver iniziato la scuola di italiano, mi ha chiesto di accompagnarla in una biblioteca per bambini perché voleva cominciare a leggere e poi è passata alla biblioteca Ariostea, oggi ha ottenuto l’asilo politico e ha trovato un lavoro. Un’altra ragazza che ci sembrava avesse poche risorse in realtà aveva un disagio sanitario, tolto quello aveva tutte le risorse per affrontare la vita. Questo mi ha insegnato che dobbiamo approfondire il tipo di ascolto. Io, che di solito devo avere tutto sotto controllo, ho capito che devo lasciare andare, vivere giorno per giorno e lasciarmi stupire da loro”.
Concorda anche Miriam, 23 anni, studente di chimica che arriva dalla provincia di Foggia e che a Casa Betania fa la volontaria: “Cercavo un lavoro, mi è arrivata un’email da Unife per fare l’anno di volontariato sociale e ho accettato, ho finito a giugno e adesso continuo a venire compatibilmente con gli studi. All’inizio ero spaesata, avevo già fatto volontariato ma era stata un’esperienza totalmente diversa, non mi aspettavo di lavorare all’ufficio accoglienza, con donne e bambini di diverse nazionalità, ho conosciuto nuove culture, nuove lingue, nuovi cibi. Mi sono scontrata con la realtà, ho scoperto come funziona una richiesta di asilo politico. L’anno scorso ho incartato 50 pacchi regalo per Natale e il regalo più grande me lo hanno fatto, con i loro sorrisi, i bambini che li hanno ricevuti. Ho anche tenuto un mini corso di computer alle ragazze e alla fine ho rilasciato un attestato, una bella soddisfazione anche quella. Oggi mi occupo più di dare una mano con la sistemazione dei documenti in amministrazione. Gli operatori sono tutti amichevoli, mi fa piacere alleggerire il loro lavoro, si è creato un legame che non voglio spezzare. E’ stata ed è un’esperienza non comune, che ti cresce e ti fa vivere meglio la vita perché torni a casa e pensi oggi ho fatto qualcosa per gli altri, ho usato il mio tempo libero per gli altri”.
Tra questi altri c’è anche Naima. Ha 41 anni ed è arrivata a Casa Betania circa un anno fa. Anche se il suo viaggio dalla Somalia è iniziato quattro anni fa. E’ figlia di una ragazza madre che quando aveva un anno e mezzo l’ ha lasciata con la nonna e gli zii. E’ cresciuta con loro, che erano molto poveri, non ha mai conosciuto il padre ed in Somalia crescere senza un padre è veramente difficile, crea molti problemi.
“Mi sono sposata e ho avuto una figlia ma quando lei aveva un anno la famiglia di mio marito non mi ha più voluta proprio perché non avevo un padre, me ne sono dovuta andare ma mia figlia mi mancava troppo e così sono tornata”. Naima resta incinta di nuovo, i suoceri la cacciano un’altra volta e poi le dicono che la bimba è morta, ma lei non ne è convinta. Partorisce una seconda bambina che è rimasta a vivere con gli zii in Somalia.
“Volevo scappare da quella situazione, ho seguito una lontana conoscente e sono partita con i trafficanti, sapevamo che se questi avessero chiesto un riscatto per liberarci nessuno avrebbe pagato ma eravamo pronte anche a morire pur di allontanarci da lì. Abbiamo viaggiato con un gruppo per due mesi, attraversando l’Etiopia, il Sudan e siamo arrivati in Libia. I trafficanti ci hanno venduti ad altri trafficanti, siamo saliti su un pullman, su varie jeep, abbiamo fatto dei tratti a piedi. Io a un certo punto mi sono buttata giù da una jeep, ero sfinita dalla fame, dalla sete, dalle violenze, altri trafficanti mi hanno trovata e portata in un campo in Libia e lì sono rimasta per quasi tre anni”.
Il racconto di quel periodo è un susseguirsi di violenze varie, Naima viene anche colpita alla testa con un tubo di ferro, e porta i segni nel corpo e nella mente di quegli anni. “Ero distrutta, volevo morire, facevo fatica a camminare, a un certo punto alcune persone hanno pagato per uscire e i trafficanti mi hanno fatto andare con loro perché ormai avevano capito che la mia famiglia per me non avrebbe pagato, ero diventata inutile”. Arriva a Tripoli, qui un’organizzazione la cura e poi, con altri trafficanti, prende una barca e arriva in Sicilia, poi a Bologna e infine a Ferrara tramite conoscenti.
In Caritas si presenta confusa, spaventata, con un gran dolore a un orecchio: “Sentivo rumori strani, non stavo in piedi, credevo di essere pazza e invece era un’infezione che aveva già colpito l’udito e l’equilibrio e stava arrivando anche al cervello”. Per fortuna i medici intervengono in tempo, Naima ha subito un’operazione pochi mesi fa e ora sta meglio. “Qui ho ricevuto accoglienza, amore, rispetto, ho ricominciato a vivere, a credere nella vita. Ora riesco a dormire, a mangiare. Prima per colpa del dolore all’orecchio mi isolavo, ora non mi isolo più”.
Naima va a scuola di italiano, ha iniziato a frequentare il CPIA, Centro Provinciale per l’Istruzione degli Adulti, in Somalia non aveva potuto andare a scuola, ma qui vuole imparare la lingua e fare corsi per potersi cercare un lavoro e costruire un futuro. Al momento ha ricevuto la convocazione dalla Commissione per ottenere lo stato di richiedente asilo. “Non voglio tornare in Somalia, l’unico motivo per farlo sarebbe avere la possibilità di riprendermi le mie figlie (parla ancora al plurale). Ringrazio tutti quelli di Caritas, in particolare Rabbiia* che è il mio braccio destro. Sono arrivata morta e ora sono viva grazie a loro”.
*Rabbiia è la mediatrice culturale e traduttrice di origine somala che ci ha permesso di realizzare l’intervista a Naima (abbiamo raccontato la sua storia qui)